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Il grido dell'ora nona Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre dei pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ...Gesù, dando un forte grido, spirò. Con la concisione che lo caratterizza, l'evangelista Marco presenta il vertice del suo vangelo, il punto zénitale dell'itinerario a cui l'evangelo intende condurre ogni uomo. Il tono apocalittico (cf. l'oscurità che copre la terra) del brano non attenua la forza del grido di Gesù che riprende l'iniziò del Sal 22, una bellissima preghiera di fiducia! L'esegesi suggerisce di intendere l'espressione «dando un forte grido» del v. 37 come una ripresa dello stesso grido di cui si parla al v. 34; in altri termini, secondo Marco, il grido di Gesù non sarebbe un grido senza parole, ma un grido formulato (come Luca,dunque un solo grido, ma parole diverse: «Padre nelle tue mani consegne il mio spirito»; 23,46; diversamente Matteo che parla di due grida di Gesù: «E Gesù, emettendo di nuovo un alto grido, spirò»; 27,50). Nel suo grido, di fronte alla morte violenta, Gesù non ripete l'invocazione del salmista «Non abbandonarmi Dio della mia salvezza» (Sal 27,9; ecc.), ma constata che Dio lo abbandona nelle mani dei nemici, ad una morte ignomiosa, oggetto del ludibrio dei beffardi (cf Mt 27,43: «Ha confidato in Dio; lo liberi ora, se gli vuole bene»). Accanto a questa evidenza ne è custodita però un'altra: Gesù grida il suo sentirsi abbandonato ma in forma di dialogo «Dio mio», di fatto affermando la certa speranza che il suo Dio è presente e operante, nonostante le apparenze suggeriscano il contrario. Il paradossso non può essere più terribile: l'esperienza di abbandono è al contempo affermata e negata! Ma questo paradosso rivela il mistero di una relazione che permane, di una fede ostinata che si ferma alle soglie di una domanda: «perché?». Gesù ha così attraversato il silenzio di Dio e la morte confidando in un mistero che rimane sempre problema. L'opera di Ernesto Larnagna, carica di accentuazione patetica non solo nella finitezza di dettaglio e nella sottigliezza dell'esecuzione, lascia stupiti, interdetti, forse anche sconcertati. Eppure assume e ri-consegna allo spettatore-interlocutore la profondità e la fecondità di questo paradosso che si staglia davanti ad ogni uomo. Lamagna ha colto quella sfumatura del testo evangelico in cui Gesù, per la prima e unica volta nei vangeli, chiama Jhwh non Padre ma Dio, come se in questa esperienza suprema con Lui c'è ogni creatura. Perciò il grido del crocifisso è il grido di solidarietà con l'umano, che giudica l'esistere umano lasciandosi da questo giudicare. Nella figura del Cristo, impressa nel bronzo da Lamagna, l'onnipotenza eterna di Dio partecipa della povera terrestrità, non è indifferente e distante dalla realtà della sofferenza nella vicenda umana. Lamagna cerca una salve che non vada oltre, indifferente, la realtà della sofferenza. La sua opera è il tentativo di attraversare il cammino doloroso della croce contemplando e ascoltando il grido dell'ora nona, quello che si fa carico di quell'ultimità che è perdere la vita eppure resiste nell'invocazione, facendo della speranza il suo orizzonte ultimo. La tragica serenità che emanano la scultura e il disegno di Lamagna rimanda a Cristo come all'unico che dà un approdo di senso e di pienezza all'inesorabile, insostenibile e spesso infinita delusione del vivere quotidiano. Infatti, la forza del dolore di Gesù è affidata soprattutto all'espressione e allo sguardo, in un coinvolgente dialogo diretto con lo spettatore-interlocutore. Gli occhi chiusi del Cristo che grida al Padre, chiedono a chi alza lo sguardo verso di Lui, dì vedere ciò che Egli ora sta vedendo, di consegnare, nella sua invocazione, l'estremo dolore e la suprema dignità della finitezza umani alla cura di un Dio che da sempre costudisce l'esistenza umana (cf. Sap 19,22: «In tutti i modi, o Signore, hai magnificato e reso glorioso il tuo popolo e non l'hai trascurato, assistendolo in ogni tempo e in ogni luogo»; anche Es 2,22-25). Il coinvolgimento nella rappresentazione dei sentimenti, il pathos inusitato che la scultura impone, rivelando tutta l'indifesa amarezza del Cristo, non fanno velo al significato del momento fissato per sempre in una sequenza che conferisce valenza narrativa all'immagine, rendendola di fatto una icona, perché riattualizza il mistero dell'origine, quello cioè di «una parola iniziale che non fu per comunicare, per partecipare; fu espressione di meraviglia, di stupore: stupore davanti all'esserci, al proprio esserci: Dio altro da Dio» V.Vitiello). Lamagna pone così una interrogazione teologica: nella potenza debole della croce, Dio adempie alla sua promessa? La risposta è certo nella provocazione, eppure va continuamente e nuovamente cercata, in una relazione significata con il Cristo crocifisso, che non sfugge le domande, ma le ricolloca in una prospettiva che è l'unico, autentico fondamento possibile per la fede. Nella riflessione di Lamagna, consegnata nel suo crocifisso bronzeo, il grido di Gesù è infatti il vagito prepotente della nuova creazione che irrompe dalla sua morte, capace di rompere il velo di tempio (cf. Mc 15,35), ciò che rendeva Dio inaccessibile all'uomo; ora, per questo grido, l'uomo ha libero accesso a quel Dio che gli si è donato. La profondità dello squarcio sulle spalle del crocifisso, che si coniuga mirabilmente con l'intensità del grido, indica, in maniera inequivocabile la novità e la possibilità di un esodo offerto ad ogni uomo che trova il coraggio di alzare lo sguardo verso Colui «che non ha bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2) eppure ri-consegna quella vocazione che ri-colloca ogni uomo nella sua identità più vera: non più servo, ma figlio. Così di fronte all'abisso chenotico del crocifisso non si patisce delusione né si sfiora disperazione; chi incrocia il suo volto sa di non trovarsi di fronte ad una feconda ipotesi speculativa, ma davanti all'invito a fare propria, in una respons-abilità credente, la risposta del Figlio al Padre, di dover nella fede «rispettare e amare anche ciò che è diverso, estraneo, perché la fede non domina il mondo» (S. Quinzio), ma anzi nel mondo assume e si confronta, nel segno del crocifisso, con il paradosso di una impotente debolezza nella quale si rivela la potentia obœdentialis dell'uomo davanti alla verità della sua vita: alle spalle la vita che fugge, davanti un Dio che non ha mai visto, al quale tuttavia si consegna e si affida come al suo Dio. Angelo Passaro |